G7 in Cornovaglia, il primo in presenza dopo la pandemia. Giornalisti tenuti a distanza

Il corrispondente da Londra rievoca i vertici G7 che ha seguito

di Marco Varvello

Del mio primo G7, Napoli 1994, ho due ricordi molto vivi. Quello delle coppie presidenziali mano nella mano a Piazza Plebiscito: Bill e Hillary Clinton, Silvio e Veronica Berlusconi. Per il Regno Unito era presente uno sbiadito John Major, per la Germania un monumento di storia contemporanea come Helmut Kohl. Per me, giovanissimo giornalista della redazione Esteri del TG1, era un mondo incredibile, che stavo solo allora imparando ad osservare e raccontare. Secondo ricordo: mi avvio per la diretta del TG1 serale. Castel dell’Ovo blindatissimo. Sbaglio percorso, apro una porta per orientarmi e vedo nella stanza i governanti seduti al tavolo della discussione. Proprio loro, tutti quanti. Oggi non sarebbe possibile. Stanza senza guardie alla porta. Sguardi interrogativi degli agenti di sicurezza all’interno, pronti ad intervenire. Mi salvò il Badge rosso con cui potevo circolare anche nelle zone “off limits”. Arrivai alla postazione della diretta un po’ scosso.

Il mio secondo G7 fu in realtà un G8, quello di Birmingham nel 1998, allargato anche alla Russia. Ero sempre Junior, giovane Corrispondente. Lavorai a supporto di volti noti della RAI come Fabrizio Del Noce e Antonio Caprarica. Ma respirare di nuovo l’aria di un grande evento internazionale mi diede il senso di una crescita professionale e personale. Ricordo flash: la pinta di birra che gustarono insieme, come due vecchi amici, Clinton e il padrone di casa Tony Blair. Bellissima giornata di maggio, in piedi fuori da un pub, in barba alle norme di sicurezza che sconsigliavano ovviamente di essere così esposti. Guardie del corpo nervose.

Il mio terzo G7, anzi ancora G8, di fatto non ci fu. Scozia, 2005. Eravamo tutti a Edimburgo in attesa dei pullman navetta che ci avrebbero portato al Centro stampa. La riunione si svolgeva in un hotel con campi da golf, Gleaneagles, nella campagna della contea di Perth. Per fortuna non ci eravamo ancora mossi: cominciarono ad arrivare da Londra le drammatiche notizie di attentati nella metropolitana. Con il collega Caprarica ci precipitammo all’aeroporto. Ritardi e caos per rientrare nella capitale. Riuscimmo ad arrivare per i TG della sera. Il terribile attacco a tre metropolitane ed un autobus, 56 morti, travolse per giorni e giorni ogni altra notizia.

Il mio quarto G8 fu quello di Heiligendamm, estremo nord della Germania. Bellissimo albergo sul Baltico. Il molo fu passerella per le foto di gruppo, dalla Merkel a Putin, da Bush junior a Blair, da Prodi a Sarkozy. In quella occasione, come Corrispondente da Berlino, seguii all’esterno le manifestazioni No Global. Polizia tedesca efficientissima. Decine di migliaia di dimostranti, compresi centinaia di temuti Black bloc, furono dispersi nella campagna. Impossibile avvicinarsi alla sede del vertice. Dopo gli incidenti di Genova 2001 e la tragica morte di Carlo Giuliani tutti i Paesi organizzatori scelgono ormai posti isolati. Certo fu curioso, rientrando a Berlino a fine vertice, vedere giovani antagonisti, Black bloc, gruppuscoli anti-sistema, chiacchierare, ridere e socializzare con poliziotti nei bar degli autogrill. Forse i sospetti su infiltrati tra i movimenti estremisti non erano poi così balzani.

Ed ora eccomi al mio quinto vertice. Ancora a presidenza britannica e tornato G7, dopo l’esclusione della Russia causa invasione della Crimea e sanzioni seguite alla disputa con l’Ucraina. La sede è un meraviglioso angolo di Cornovaglia, sulla sperduta punta occidentale dell’isola britannica. Anche qui un Hotel, quello di Carbis Bay, fiore all’occhiello del turismo costiero. Questa volta non solo i dimostranti faranno fatica ad avvicinarsi. Anche i giornalisti sono tenuti a debita distanza. Il Media centre relegato a una sessantina di chilometri, nella cittadina di Falmouth. Un’ora di auto lungo le strette strade della Cornovaglia. Così il primo vertice in presenza del dopo pandemia per noi giornalisti rimarrà molto virtuale. Speriamo che da Biden a Johnson, da Draghi a Macron e Merkel tutti concordino nel dare risposte concrete ai due temi chiave. Primo: vaccinazioni per tutti i Paesi, non solo quelli ricchi. Secondo: rilancio della lotta ai cambiamenti climatici. Il cambio alla Casa Bianca crea sicuramente un clima più proficuo alla collaborazione tra i maggior Paesi industrializzati.

Il Quirinale torna a festeggiare in presenza la Repubblica

Negli ultimi mesi il Quirinale è tornato ad aprirsi, sia pure con la cautela di eventi brevi e con presenze contingentate. Mattarella ha ripreso le sue visite in giro per l’Italia (a Brescia e Cremona), a un anno da quell’omaggio in totale solitudine al Milite ignoto, il 25 aprile del 2020

di Federica Mango

Al Quirinale torniamo a festeggiare il 2 giugno, la festa della Repubblica che quest’anno ha un significato in più: quello dei 75 anni dalla data del referendum che portò gli italiani a scegliere per la forma repubblicana del nostro Paese. Torniamo a festeggiare, dopo i silenzi dei saloni che di solito ospitano le cerimonie ufficiali e il vuoto inevitabile del grande cortile della “casa degli italiani”, che siamo stati abituati a vedere animato dai visitatori nel nostro lavoro quotidiano.

I mesi che ci lasciamo alle spalle hanno pesato molto e non solo su di noi, che non abbiamo avuto la possibilità dell’incontro e dello scambio di idee con i consiglieri del Presidente: quei minuti preziosi all’inizio o alla fine di una cerimonia, oppure a margine di una visita in trasferta, per capire meglio, per interpretare nel modo giusto. Sono stati mesi di difficoltà e di sacrificio anche per Mattarella, diviso tra la necessità di attenersi rigorosamente all’isolamento delle misure anti-contagio (molti dei contatti con il suo staff all’inizio avvenivano per telefono, da una stanza all’altra) e la volontà di trovare nuovi modi per essere comunque vicino agli italiani.

Lo scorso 2 giugno eravamo ancora in lockdown. Il nostro lavoro di giornalisti accreditati al Quirinale da mesi si basava su comunicati scritti e messaggi video registrati dalle pochissime persone che avevano contatti con il capo dello Stato: Mattarella ha colto ogni occasione e ogni ricorrenza per far arrivare la sua voce, ma la possibilità per noi di entrare nel Palazzo era preclusa. Il che ha significato non poter utilizzare la redazione completa di montaggi, studio per i collegamenti, repertorio di immagini e materiale di archivio che la Rai ha a disposizione dentro il Quirinale, nei locali a piano terra che danno sui giardini. Un privilegio unico nel panorama dei media, che la nostra azienda ha come servizio pubblico che assicura la copertura totale di notizie e immagini dei presidenti della Repubblica.

Il nostro lavoro di cronisti ha dovuto usare l’ascolto, siamo scesi in profondità sui temi e sui simboli più che descrivere. Ovviamente non si e trattato solo di cambiare metodo di lavoro o di qualche briefing in videoconferenza. Sono cambiati anche i contenuti. Le parole scelte dal Capo dello Stato sono state di vicinanza per le paure e le sofferenze della pandemia e al tempo stesso di incoraggiamento a guardare avanti. Un argomentare asciutto, che andava restituito in modo da non perderne la forza e le motivazioni. Negli ultimi mesi il Quirinale è tornato ad aprirsi, sia pure con la cautela di eventi brevi e con presenze contingentate. Mattarella ha ripreso le sue visite in giro per l’Italia (a Brescia e Cremona), a un anno da quell’omaggio in totale solitudine al Milite ignoto, il 25 aprile del 2020. Davvero una grande emozione per me (e credo per tutti), un gesto che significava omaggio alla sofferenza ma anche speranza e che ha fatto il giro dei media e dei social di mezzo mondo.

Così possiamo tornare a festeggiare in presenza la Repubblica, anche se in modo molto diverso rispetto a due anni fa, quando i giardini del Quirinale erano aperti il primo giugno ai politici e ai giornalisti (ghiotta occasione per i retroscena!) e il 2 giugno a migliaia di cittadini, con i concerti delle bande militari. Mattarella ci ricorda che siamo ancora in tempo di pandemia, e anche se questo è l’ultimo 2 giugno del suo settennato si è visto costretto a sospendere la seguitissima sfilata miliare e civile lungo via dei Fori Imperiali e a tenere chiusi anche quest’anno i cancelli dei Giardini del Quirinale. A malincuore. Tutto è affidato alla musica, ai passi di danza sul palco nel Cortile del Quirinale e alle parole di Mattarella. La vera continuità che resiste alla pandemia in queste feste della Repubblica così diverse.

Elisabetta Belloni, punta di diamante della Terza C

Adesso le toccano i Servizi segreti. E sarà la solita Betty. Più o meno quella della foto

Elisabetta Belloni (Filippo Nanni)

Di Filippo Nanni

Liceo Classico. Maturità 1977. Elisabetta Belloni, per noi Betty, era la punta di diamante della Terza C, Istituto Massimiliano Massimo, Roma, Eur. Una scuola che non ha bisogno di presentazione a parte ricordare – perché è un passaggio non trascurabile di questa storia – che da lì ha spiccato il volo il presidente Mario Draghi. Ultimo anno di liceo in una classe che stava insieme da tre e che aveva sviluppato un’anima comune nonostante una composizione a dir poco variegata: piccoli geni della matematica, traduttori appassionati di latino e greco, spiriti liberi in cerca di identità e perfino calciatori promettenti. Sono passati più di 40 anni ma Elisabetta Belloni, evidenziata nella foto, ha sempre lo stesso sorriso intelligente e la battuta pronta. I miei compagni di classe saranno tutti d’accordo: era la più brava di tutti, uno dei pochi alunni ai quali il terribile professor Severini non abbia tirato un gessetto dopo una declinazione sbagliata. Brillante ma non “secchiona”, generosa e disponibile durante i compiti in classe. Sempre a bordo campo a festeggiare le vittorie della nostra squadra di calcio. I pomeriggi a casa di Betty per provare a capire la matematica erano in realtà un pretesto per vederci in cinque o sei e stare ancora insieme. E tutta la sua brillantezza non è andata sprecata: l’ha fatta conoscere ogni volta che ha fatto un passo avanti in una carriera straordinaria. E noi, i suoi compagni di classe, a scambiarci messaggi ogni volta che veniva promossa. Contenti ma mai sorpresi. Quando si è trovata a dirigere l’Unità di crisi della Farnesina, in un momento particolarmente delicato, sono andato a trovarla per organizzare un’intervista e mi ha raccontato le notti insonni in collegamento col mondo e mi ha fatto vedere la stanza spartana dove poteva riposare qualche ora. E quando a Febbraio l’ambasciatore in Congo Luca Attanasio è stato ucciso in un’imboscata, le ho mandato un messaggio alle 8 di mattina: ti va di ricordarlo a Rainews24? Mi ha risposto un sì laconico e poche ore dopo era in onda in esclusiva per Rainews24 senza retorica ma con parole di grande affetto e partecipazione per il suo collega-amico. Una solenne semplicità.

Adesso gli toccano i Servizi segreti. E sarà la solita Betty. Più o meno quella della foto.

Filippo Nanni

Elezioni nel Regno Unito: “Ho votato anch’io”

Il racconto del corrispondente Rai da Londra

di Marco Varvello

Eccomi qui a compiere il mio dovere elettorale per le amministrative 2021. A Londra si è votato per il sindaco, per la Greater London Assembly cioè il consiglio comunale a 25 membri della capitale e per i singoli Boroughs, i quartieri, spesso grandi come città, visto che Londra conta oltre 8 milioni di abitanti.

Tre schede dunque. Hanno diritto di votare tutti i residenti, anche se non cittadini britannici. La logica e’ chiara: chi risiede in una città ha diritto a scegliere chi la amministra. Anche il Corrispondente giornalista italiano dunque come il sottoscritto, finché abita a Londra, può votare alle elezioni locali (non alle Politiche ovviamente).

Eccomi dunque al seggio con la mia Poll card, la scheda elettorale. Il resto… non lo racconto, il voto è segreto!

La corsa contro il Covid di Expo Dubai

A cinque mesi dal taglio del nastro è ancora difficile dire se la diffusione della pandemia, in autunno, permetterà a questo evento globale di decollare.

di Alessandro Marchetti 

Non far fallire la prima Expo di un Paese arabo causa pandemia da Coronavirus. Che sia questa la missione del governo degli Emirati, a Dubai si coglie da tanti dettagli. E da qualche numero. Per le strade della capitale dell’emirato, votato al turismo e alla finanza, si vedono più ospedali e centri diagnostici che turisti. I tamponi sono somministrati ai drive-in senza prenotazione. Non solo. E’ il tasso di popolazione vaccinata a piazzare gli Emirati arabi uniti ai primi posti al mondo: sabato 1 maggio erano terzi dopo Seychelles e Israele, secondo il New York Times. Nei sette emirati si contano almeno 205 centri vaccinali, dove si distribuiscono 4 sieri in commercio: Pfizer, Sinopharm, Sputnik e Astrazeneca. Quello che più ha fatto discutere è stato l’uso del vaccino cinese Sinopharm: il governo emiratino lo ha adottato quando era ancora in fase 3 di sperimentazione. A riceverlo sono stati primi fra tutti il personale sanitario e governativo.

L’aspettativa del Paese per Expo è altissima. A maggio 2020 il governo aveva concordato con l’autorità internazionale delle esposizioni un rinvio inevitabile: l’Expo 2020 sarebbe slittato al 1° ottobre dell’anno successivo, per terminare a marzo 2022. All’epoca il dilagare del contagio nel mondo, e il conseguente blocco delle frontiere, non lasciava altra scelta. E a cinque mesi dal taglio del nastro è ancora difficile dire se la diffusione della pandemia, in autunno, permetterà a questo evento globale di decollare. Lo stesso dilemma che attanaglia il governo giapponese per le olimpiadi di Tokyo. L’obiettivo, fissato dagli Emirati, è raggiungere i 25 milioni di visitatori.

“Expo Dubai sarà la porta di accesso del mondo a una vita tornata alla normalità”, ha dichiarato il 7 aprile il 39enne principe Hamdan bin Mohammed al-Maktoum, futuro emiro di Dubai. E la strategia per non far fallire l’evento passa anche per una precisa politica di accoglienza “vaccinale”. Mirata ai governi dei Paesi partecipanti. “Dubai offrirà i vaccini COVID-19 a rappresentanti ufficiali dei Paesi aderenti a Expo” ha assicurato il principe. La mossa arriva dopo la discussa scelta della famiglia reale emiratina, che mesi fa ha deciso di offrire vaccini Pfizer su invito a persone con relazioni d’alto livello. Secondo il Financial times, diverse personalità del mondo degli affari e della politica sono state invitate negli Emirati per accedere prima al vaccino anti Covid: il finanziare inglese Ben Goldsmith ma anche il numero uno del più grande fondo pensione canadese, costretto a dimettersi dopo la somministrazione. Critiche in patria sono arrivate anche a due sorelle di re Felipe di Spagna, anch’esse vaccinate sul Golfo.

L’area dell’Expo è ancora oggi un grande cantiere. Entrando negli oltre 4,3 chilometri quadrati si distinguono pochi padiglioni pronti all’esterno: tra questi Kazakshtan, Israele e Spagna. L’Italia ha da poco terminato il tetto e la facciata. Circolare tra i cantieri è operazione non facile anche per la stampa straniera, che è costantemente sorvegliata dalla sicurezza emiratina. Gli operai lavorano giorno e notte avvolti dal vento del deserto. In cinque mesi dovranno nascere padiglioni ma anche parchi e centri di accoglienza.

Verrà anche costruita un’apposita stazione della metro. L’evento sarà all’insegna della sostenibilità: circa il 90 per cento dei materiali usati, ha assicurato il governo, verranno riutilizzati per edifici permanenti. Ma Expo Dubai non è solo una questione di credibilità internazionale. Per le monarchie del Golfo c’è anche un’economia da risollevare dalla più grave recessione della loro storia. Per Standard&Poor’s il Pil nel 2020 è crollato del 10,6%, complice anche il basso prezzo del petrolio. Da sempre l’economia degli Emirati è dipendente dalle vendite di greggio. Tuttavia, dei sette emirati Dubai è quello che meno legato ai proventi del settore petrolifero e più di tutti da turismo e consumi. Ecco allora che il taglio del nastro del 1° ottobre diventa ancora più strategico. La banca centrale emiratina vede l’economia in crescita, nel 2022, del 3,5 per cento anche grazie a Expo. Per molti osservatori è una stima ottimistica. Equilibrato è il giudizio di Scott Livermore, capo economista del centro studi Oxford Economics. “Anche se l’evento avrà un parziale successo, ha il potenziale per rilanciare l’economia e riportarla ai livelli pre-pandemici”. Di sicuro il successo dipenderà da quanto il Coronavirus ci permetterà, da ottobre, di fare viaggi internazionali.

 

Vaccinazioni, nel Regno Unito si bruciano le tappe

Il racconto del corrispondente Rai da Londra

 di Marco Varvello

Come bruciare le tappe della vaccinazione senza saltare alcuna fila. In Inghilterra si può. La mia fascia di età (61 anni) era stata chiamata a febbraio per la prima dose, quasi sempre vaccino Astrazeneca. Il richiamo era stato fissato in seguito per il 3 maggio. Ma due giorni fa lo studio medico di base (GP, General Practitioner) del Servizio sanitario nazionale (NHS) dove sono registrato mi ha mandato un messaggio sul cellulare. Mi informavano che c’era disponibilità di vaccini in un centro di zona. E’ bastato cliccare sul link all’interno del messaggino per vedere giorni ed orari.

Mi sono subito iscritto ed eccomi qui, con la mia tessera vaccinale ormai completa, che riporta nome, data della somministrazione e numero del lotto di Astrazeneca utilizzato.

Per ora è una tessera cartacea che serve solo come pro-memoria. Nelle prossime settimane diventerà probabilmente un certificato vaccinale vero e proprio. Così finora più della metà delle popolazione in Gran Bretagna ha ricevuto almeno la prima dose. Prenotazione digitale e nemmeno un quarto d’ora di attesa, anche grazie a tantissimi volontari, sia tra il personale medico sia di sorveglianza. Congratulations!

Ho il Covid. E ora?

“Ho avuto il Coronavirus in forma lieve, sono stato fortunato”. Il racconto del vicedirettore di Rainews24 

 di Oliviero Bergamini

“Rilevato”. Fa impressione, leggendo il referto del test molecolare, scoprire che quel virus che assilla tutti da mesi adesso è dentro di me.

E ora? Per prima cosa bisogna isolarsi. Lo faccio subito, in una stanza separata, pensando a quanto sarebbe complicato se non ne avessi una a disposizione.

“Se positivi, chiamate il vostro medico” è il mantra. Lo chiamo, è gentile. Ma le nostre telefonate si consumano nel tentativo di calcolare il momento in cui sono cominciati i sintomi e di conseguenza il giorno in cui rifare il tampone per il quale deve munirmi di “ricetta dematerializzata”.

Per il resto il dottore mi dice di misurare spesso febbre e ossigenazione del sangue, assumere tachipirina se la febbre sale, e arrivederci. Sono nella mani di termometro e pulsimetro, quell’aggeggio a pinza che si infila sul dito, e che tutti ormai hanno in casa, mentre prima nessuno sapeva nemmeno che cosa fosse.

Non ho febbre, i valori dell’ossigeno sono sufficienti, sebbene non esaltanti. Ho pochi sintomi, nulla di lontanamente paragonabile a chi finisce in ospedale. Ma bene non sto. Mal di testa, forte intasamento, tosse insistente, debolezza, una spossatezza mai provata prima.

E tanta incertezza. Che cosa sta combinando dentro di me quella maledetta, infinitesimale pallina dai microscopici spuntoni? Che cosa devo fare per evitare che mi devasti i polmoni? Solo incrociare le dita e aspettare?

Dalla mia parte ci sono le statistiche, che dicono che nella grandissima maggioranza dei casi di Covid si guarisce, che le vittime (troppe !) sono quasi sempre persone molto anziane o già malate. Ma di quadri clinici apparentemente buoni che precipitano improvvisamente ne ho sentiti diversi. E gradirei non aggiungere il mio.

Così mi avventuro alla ricerca di informazioni, esperienze, consigli: internet, telefonate, messaggi di amici e conoscenti. E’ una giungla, là fuori. La maggior parte degli esperti consiglia terapie minimali; alcuni però invocano interventi d’urto, anti-infiammatori, cortisone, subito rimbeccati da altri “Per carità ! Niente cortisone, abbatte le difese immunitarie, apre la strada al virus”. E quando somministrare i farmaci ? “Subito, ai primi sintomi”, “No, dopo qualche giorno, però prima di sviluppare sintomi gravi.” Ma come faccio a sapere in anticipo quando stanno per arrivare ?  Mi viene in mente quella canzone di Jannacci “A saperlo prima…”

E le vitamine? E le varie altre “ine”? Nel complesso nessuna è di provata efficacia, lo so, ma se per caso per me funzionassero, come per quel signore a Las Vegas di cui racconta quell’articolo? E le terapie monoclonali? Sono davvero una svolta? Un mio collega è stato curato con quelle e ora su Facebook scrive trionfante “Ho vinto!” Come  potrei farmele prescrivere?

Un collega espertissimo mi suggerisce di seguire le linee guida dell’Associazione Italiana del Farmaco. Ma sul sito dell’AIFA fatico a trovarle. Dal generico link “Emergenza COVID.19” si accede a un elenco di “Farmaci utilizzabili”, articolata in lunghe schede tecniche. Non ho maggiore fortuna con il sito del Ministero della Salute. In sostanza, non riesco a trovare alcuna fonte ufficiale nazionale che fornisca ai cittadini una lista standard di indicazioni terapeutiche chiare e semplici.

Di indicazioni su Internet se ne trovano migliaia, certo, stilate da ospedali, regioni, comuni, medici, personal trainer, pranoterapeuti… Quali sono davvero aggiornate, complete, affidabili?

A un certo punto, preso dall’ansia, mi ritrovo ad assumere un po’ di tutto, anche farmaci di segno opposto, consigliati da esperti che tv si scambiano insulti. E’ lo smarrimento di un attimo. Ho visioni di schiere di virus che avanzano allegramente nei miei polmoni dandosi il cinque, mentre sullo sfondo le molecole che dovrebbero fermarli si azzuffano tra loro, neutralizzandosi a vicenda.

Dopo tre-quattro di giorni mi sento meglio, penso di avere scavallato, e invece un mattina mi risveglio di nuovo con un lancinante mal di gola, una debolezza diffusa. Peggio di prima. Succede un paio di volte. Sfibrante.

Una sera l’ossigenazione scende a 92. Il virus ha sfondato? Devo richiamare subito il medico oppure dormirci sopra per vedere se l’ossigenazione risale? Non sarà troppo tardi ? Anche il pulsimetro ci mette del suo. Ne ho due modelli; uno segna regolarmente un paio di punti in meno dell’altro. Qual è quello giusto?

Alla fine opto per un approccio farmacologico minimale; dopo una settimana un primo tampone è ancora positivo, qualche giorno più tardi un altro finalmente sentenzia “non rilevato”.

Ma altre domande già incrinano il sollievo. Sono già immunizzato o devono passare giorni prima che la difesa degli anticorpi si consolidi?  Quanto dura l’immunità? E’ totale o parziale? Posso ancora contagiare altri? Anche qui trovo opinioni diverse, dati diversi, studi parziali, provvisori. L’immunità dovrebbe durare alcuni mesi, sembra. Ma incombe il turbinare delle varianti.

Oggi, quasi due settimane dopo il test negativo, continuo ad avere momenti di malsana spossatezza. Ho avuto il Covid in forma lieve, sono stato fortunato. Ma vista dalla mia esperienza, la battaglia contro la pandemia dovrà durare ancora a lungo.

Nella Tripoli che rinasce

Di Emma Farnè

La corsa alla ricostruzione della Libia inizia già in aeroporto. Al nastro degli arrivi a Tripoli Mitiga, tra tre generazioni di famiglie in viaggio e buste di regali, ci sono uomini di affari che parlano turco o cinese. Consulenti americani. Funzionari di delegazioni europee in visita per incontrare il nuovo governo di accordo nazionale. E chi arriva dall’Italia deve fare tappa a Tunisi o Istanbul: dura di meno il viaggio di un imprenditore turco che arriva dall’altra parte del Mediterraneo di quello di un investitore italiano. Anche perché il nuovo aeroporto, quello internazionale, è ancora in costruzione.

A Tripoli la vita riprende, con fatica. E in fila. Ci si mette in coda per fare la benzina che costa meno dell’acqua: 0,15 dinari, circa  due centesimi di euro al litro. Nei distributori spesso non si trova. Tanti la usano per i generatori di corrente, per i frequenti blackout. E alcuni la rivendono sul mercato nero.


E ci si mette in coda alla banca, anche per ore fin dall’alba, per ritirare i soldi dello stipendio, e spenderli in un’economia basata quasi esclusivamente sul contante.

Chi invece ha fortuna di poter cambiare valuta straniera lo fa spesso, ironia della sorte, davanti all’edificio della banca centrale. E torna a casa con pacchi di banconote in mano, nelle buste della spesa.

 

A Tripoli la ricostruzione parla spesso turco. Sono turche le porte e le finestre dei bagni negli uffici comunali, pannelli di plastica. Sono turchi i chioschi di kebab intorno a piazza dei martiri. Al mercato verdura, frutta, persino il pesce congelato, spesso arrivano dalla Turchia e non più dalla vicina Tunisia. Sugli scaffali dei supermercati, accanto alle crostatine di marca italiana, biscotti turchi e datteri degli emirati. Nei ristoranti tornano le famiglie con bambini, al primo piano, e gli uomini al piano terra, nel venerdì sera di festa.

l bazar i commercianti chiedono tutti la stessa cosa: elettricità costante e senza blackout e poi la Libia ai libici. “Che escano fuori tutti gli stranieri che vogliono mettere le mani sul Paese”, dicono in molti. Anche gli italiani, chiediamo? “Gli italiani no, ci conoscono bene, erano qui già da prima. E poi durante la guerra sono gli unici che non hanno chiuso l’ambasciata”, ci dice un fruttivendolo. Le donne, quasi tutte velate. Nessuna vuole parlare davanti alla telecamera, neanche quelle che camminano a volto scoperto, truccate, con scarpe e borse alla moda: “Mio marito mi sta guardando”.

Sul lungomare gli adolescenti si riuniscono felici per la prima volta dopo tanti mesi. Sognano di giocare in una squadra di calcio, di fare sport all’aperto, di poter continuare a vedersi in gruppo, in piazza, il venerdì e il sabato sera. Sogni impossibili fino a qualche mese fa. “Italiani? Facciamo una foto tutti insieme”, mi dicono, e improvvisamente siamo star del cinema.

Ad Ain Zara, ex linea del fronte tra le forze pro Serraj e quelle che sostenevano il generale Haftar, almeno dieci tra funzionari del governo di Tripoli, della municipalità locale e poliziotti ci mostrano la distruzione. Quasi fossimo una delegazione di reali britannici. Tutti offrono qualcosa, anche chi non ha più niente: un caffè, acqua, un succo di frutta, un cesto di fragole. Anche i poliziotti, felici di accompagnarci e di farci vedere quali case sono state sminate e quali no. A ogni strada, a ogni incrocio, c’è un caffè da bere che non si può rifiutare e una storia da raccontare di chi ha perso tutto e che con orgoglio vuole ricostruire. Negli uffici, un generoso invito a condividere il pasto dallo stesso piatto, come da tradizione. Con buona pace del coronavirus.

A Ain Zara si muore camminando nel giardino di casa, sulle bombe inesplose. Nelle ultime settimane, ha perso la vita un ragazzino di 14 anni. Al municipio di Ain Zara è una processione continua di sopravvissuti alla guerra: in mano, buste con le foto delle case distrutte, e moduli per chiedere un sussidio.

Sulle mine, nelle settimane scorse, è morto anche un giovane uomo che lascia quattro figli e una moglie in lacrime. Il nonno, a testa alta e col dito alzato in cielo, dice: “Qui non ci serve nulla dagli stranieri. Vogliamo solo mandare a scuola i nostri figli. In sicurezza”. Sulla strada, passa il primo autobus pubblico, la linea 70 sulla linea del fronte. Nella villa accanto, c’è chi sta già piantando il nuovo orto.

Bab Azizia prima era la roccaforte di Gheddafi e dei gheddafiani. Del compound del rais restano solo macerie dentro un’enorme area recintata, dove ora vivono gli sfollati. Dove prima c’erano le caserme, ora è un cumulo di macerie e spazzatura

Nel quartiere si ricostruisce. Cantieri per strade e fognature nuove, scavi per un nuovo giardino per i bambini. “Qui arrivano ong danesi, imprese tedesche, uomini di affari turchi, ci dice un capomastro. E gli italiani, perché non si sono visti?”

Ecco qui il futuro della Libia, costruito con chi ha le mani giovani ma già consumate come quelle dei vecchi.

Mani di migranti, spesso reclutati agli smorzi per le strade di Tripoli. Si siedono tutti in gruppo, sul marciapiede, tantissimi quelli che sembrano non avere neanche 18 anni. Gli attrezzi del mestiere davanti a loro: martelli, scope, pale, come per dire: so spazzare, costruire, scavare. Tirare su i palazzi della nuova Libia.

Per le strade di Tripoli, c’è anche chi sogna la ricostruzione dei vecchi palazzi italiani di epoca coloniale: Ghaleb Ghebrawi, architetto, vorrebbe rivedere la galleria de bono di nuovo aperta, magari con un progetto di riqualificazione con gli architetti italiani. “Ma mancano i soldi e poi ci vuole la volontà politica”.

Quando ci si allontana dal centro di Tripoli, forze dell’ordine controllano traffico e spostamenti. Colonne di forze armate, a ricordare la fragilità della pace tornata da pochi mesi.

 

 

Antonio Di Bella: “Il mio vaccino a New York”

Il corrispondente Rai da New York racconta come funziona il sistema di vaccinazione nella Grande Mela: dalla prenotazione on line all’excelsior pass che consente l’accesso a tutte quelle iniziative pubbliche dove sarà necessario dimostrare di essere vaccinati per poter entrare. Tutto in pochi clic

 di Antonio Di Bella (@AntDiBella)

Ho deciso di cercare di vaccinarmi quando ho ricevuto la notizia che tutti gli ultra sessantenni a New York avrebbero potuto farlo. Così ho cominciato a cercare online e senza troppa fatica sono riuscito a prenotare nella farmacia sotto casa – la Wall Green, parte di una grande catena americana – l’appuntamento per la prima dose il 15 marzo.

Contestualmente all’iniezione, dopo 10 minuti di attesa con sette, otto persone davanti a me, ho ricevuto un secondo documento con le indicazioni per il secondo appuntamento, il 12 aprile.

Pochi giorni prima però il ministro degli esteri italiano Di Maio ha annunciato il suo viaggio a Washington cui non potevo mancare. Così, sia pure a malincuore, ho annullato l’appuntamento per la seconda vaccinazione temendo di finire in coda o di dovere passare interminabili giornate al telefono o al computer.

Invece dopo pochi giorni ho ricevuto una telefonata da un centralino automatizzato che mi ha invitato a programmare di nuovo il mio secondo appuntamento e quando ho commesso un errore nel digitare la mia data di nascita, un’efficientissima centralinista si è palesata chiedendomi addirittura che giorno e che ora preferissi per completare il mio ciclo vaccinale.

Così è stato: il giorno 19 aprile alle 14:30 sempre nella stessa farmacia sotto casa. Questa volta l’attesa è stata ancora minore, cinque minuti con due persone davanti. Inoltre ogni due o tre giorni a chiunque sia vaccinato vengono inviati messaggi per verificare le condizioni di salute.

Ora posso inserire i miei dati nell’excelsior pass, ideato dallo stato di New York in modo che la prova della mia vaccinazione finisca nel database locale e mi consenta presentando semplicemente il mio telefonino di entrare in tutte quelle iniziative pubbliche dove sarà necessario dimostrare di essere vaccinati per poter entrare.

Unica incongruenza il fatto che per accedere al volo per l’Italia o per altre nazioni il mio certificato vaccinale non ha valore e devo in ogni caso presentarmi munito di un test che però è semplicissimo da fare in uno dei tantissimi centri spuntati come funghi in ogni zona della città.