Vaccinazioni, nel Regno Unito si bruciano le tappe

Il racconto del corrispondente Rai da Londra

 di Marco Varvello

Come bruciare le tappe della vaccinazione senza saltare alcuna fila. In Inghilterra si può. La mia fascia di età (61 anni) era stata chiamata a febbraio per la prima dose, quasi sempre vaccino Astrazeneca. Il richiamo era stato fissato in seguito per il 3 maggio. Ma due giorni fa lo studio medico di base (GP, General Practitioner) del Servizio sanitario nazionale (NHS) dove sono registrato mi ha mandato un messaggio sul cellulare. Mi informavano che c’era disponibilità di vaccini in un centro di zona. E’ bastato cliccare sul link all’interno del messaggino per vedere giorni ed orari.

Mi sono subito iscritto ed eccomi qui, con la mia tessera vaccinale ormai completa, che riporta nome, data della somministrazione e numero del lotto di Astrazeneca utilizzato.

Per ora è una tessera cartacea che serve solo come pro-memoria. Nelle prossime settimane diventerà probabilmente un certificato vaccinale vero e proprio. Così finora più della metà delle popolazione in Gran Bretagna ha ricevuto almeno la prima dose. Prenotazione digitale e nemmeno un quarto d’ora di attesa, anche grazie a tantissimi volontari, sia tra il personale medico sia di sorveglianza. Congratulations!

Ho il Covid. E ora?

“Ho avuto il Coronavirus in forma lieve, sono stato fortunato”. Il racconto del vicedirettore di Rainews24 

 di Oliviero Bergamini

“Rilevato”. Fa impressione, leggendo il referto del test molecolare, scoprire che quel virus che assilla tutti da mesi adesso è dentro di me.

E ora? Per prima cosa bisogna isolarsi. Lo faccio subito, in una stanza separata, pensando a quanto sarebbe complicato se non ne avessi una a disposizione.

“Se positivi, chiamate il vostro medico” è il mantra. Lo chiamo, è gentile. Ma le nostre telefonate si consumano nel tentativo di calcolare il momento in cui sono cominciati i sintomi e di conseguenza il giorno in cui rifare il tampone per il quale deve munirmi di “ricetta dematerializzata”.

Per il resto il dottore mi dice di misurare spesso febbre e ossigenazione del sangue, assumere tachipirina se la febbre sale, e arrivederci. Sono nella mani di termometro e pulsimetro, quell’aggeggio a pinza che si infila sul dito, e che tutti ormai hanno in casa, mentre prima nessuno sapeva nemmeno che cosa fosse.

Non ho febbre, i valori dell’ossigeno sono sufficienti, sebbene non esaltanti. Ho pochi sintomi, nulla di lontanamente paragonabile a chi finisce in ospedale. Ma bene non sto. Mal di testa, forte intasamento, tosse insistente, debolezza, una spossatezza mai provata prima.

E tanta incertezza. Che cosa sta combinando dentro di me quella maledetta, infinitesimale pallina dai microscopici spuntoni? Che cosa devo fare per evitare che mi devasti i polmoni? Solo incrociare le dita e aspettare?

Dalla mia parte ci sono le statistiche, che dicono che nella grandissima maggioranza dei casi di Covid si guarisce, che le vittime (troppe !) sono quasi sempre persone molto anziane o già malate. Ma di quadri clinici apparentemente buoni che precipitano improvvisamente ne ho sentiti diversi. E gradirei non aggiungere il mio.

Così mi avventuro alla ricerca di informazioni, esperienze, consigli: internet, telefonate, messaggi di amici e conoscenti. E’ una giungla, là fuori. La maggior parte degli esperti consiglia terapie minimali; alcuni però invocano interventi d’urto, anti-infiammatori, cortisone, subito rimbeccati da altri “Per carità ! Niente cortisone, abbatte le difese immunitarie, apre la strada al virus”. E quando somministrare i farmaci ? “Subito, ai primi sintomi”, “No, dopo qualche giorno, però prima di sviluppare sintomi gravi.” Ma come faccio a sapere in anticipo quando stanno per arrivare ?  Mi viene in mente quella canzone di Jannacci “A saperlo prima…”

E le vitamine? E le varie altre “ine”? Nel complesso nessuna è di provata efficacia, lo so, ma se per caso per me funzionassero, come per quel signore a Las Vegas di cui racconta quell’articolo? E le terapie monoclonali? Sono davvero una svolta? Un mio collega è stato curato con quelle e ora su Facebook scrive trionfante “Ho vinto!” Come  potrei farmele prescrivere?

Un collega espertissimo mi suggerisce di seguire le linee guida dell’Associazione Italiana del Farmaco. Ma sul sito dell’AIFA fatico a trovarle. Dal generico link “Emergenza COVID.19” si accede a un elenco di “Farmaci utilizzabili”, articolata in lunghe schede tecniche. Non ho maggiore fortuna con il sito del Ministero della Salute. In sostanza, non riesco a trovare alcuna fonte ufficiale nazionale che fornisca ai cittadini una lista standard di indicazioni terapeutiche chiare e semplici.

Di indicazioni su Internet se ne trovano migliaia, certo, stilate da ospedali, regioni, comuni, medici, personal trainer, pranoterapeuti… Quali sono davvero aggiornate, complete, affidabili?

A un certo punto, preso dall’ansia, mi ritrovo ad assumere un po’ di tutto, anche farmaci di segno opposto, consigliati da esperti che tv si scambiano insulti. E’ lo smarrimento di un attimo. Ho visioni di schiere di virus che avanzano allegramente nei miei polmoni dandosi il cinque, mentre sullo sfondo le molecole che dovrebbero fermarli si azzuffano tra loro, neutralizzandosi a vicenda.

Dopo tre-quattro di giorni mi sento meglio, penso di avere scavallato, e invece un mattina mi risveglio di nuovo con un lancinante mal di gola, una debolezza diffusa. Peggio di prima. Succede un paio di volte. Sfibrante.

Una sera l’ossigenazione scende a 92. Il virus ha sfondato? Devo richiamare subito il medico oppure dormirci sopra per vedere se l’ossigenazione risale? Non sarà troppo tardi ? Anche il pulsimetro ci mette del suo. Ne ho due modelli; uno segna regolarmente un paio di punti in meno dell’altro. Qual è quello giusto?

Alla fine opto per un approccio farmacologico minimale; dopo una settimana un primo tampone è ancora positivo, qualche giorno più tardi un altro finalmente sentenzia “non rilevato”.

Ma altre domande già incrinano il sollievo. Sono già immunizzato o devono passare giorni prima che la difesa degli anticorpi si consolidi?  Quanto dura l’immunità? E’ totale o parziale? Posso ancora contagiare altri? Anche qui trovo opinioni diverse, dati diversi, studi parziali, provvisori. L’immunità dovrebbe durare alcuni mesi, sembra. Ma incombe il turbinare delle varianti.

Oggi, quasi due settimane dopo il test negativo, continuo ad avere momenti di malsana spossatezza. Ho avuto il Covid in forma lieve, sono stato fortunato. Ma vista dalla mia esperienza, la battaglia contro la pandemia dovrà durare ancora a lungo.

Nella Tripoli che rinasce

Di Emma Farnè

La corsa alla ricostruzione della Libia inizia già in aeroporto. Al nastro degli arrivi a Tripoli Mitiga, tra tre generazioni di famiglie in viaggio e buste di regali, ci sono uomini di affari che parlano turco o cinese. Consulenti americani. Funzionari di delegazioni europee in visita per incontrare il nuovo governo di accordo nazionale. E chi arriva dall’Italia deve fare tappa a Tunisi o Istanbul: dura di meno il viaggio di un imprenditore turco che arriva dall’altra parte del Mediterraneo di quello di un investitore italiano. Anche perché il nuovo aeroporto, quello internazionale, è ancora in costruzione.

A Tripoli la vita riprende, con fatica. E in fila. Ci si mette in coda per fare la benzina che costa meno dell’acqua: 0,15 dinari, circa  due centesimi di euro al litro. Nei distributori spesso non si trova. Tanti la usano per i generatori di corrente, per i frequenti blackout. E alcuni la rivendono sul mercato nero.


E ci si mette in coda alla banca, anche per ore fin dall’alba, per ritirare i soldi dello stipendio, e spenderli in un’economia basata quasi esclusivamente sul contante.

Chi invece ha fortuna di poter cambiare valuta straniera lo fa spesso, ironia della sorte, davanti all’edificio della banca centrale. E torna a casa con pacchi di banconote in mano, nelle buste della spesa.

 

A Tripoli la ricostruzione parla spesso turco. Sono turche le porte e le finestre dei bagni negli uffici comunali, pannelli di plastica. Sono turchi i chioschi di kebab intorno a piazza dei martiri. Al mercato verdura, frutta, persino il pesce congelato, spesso arrivano dalla Turchia e non più dalla vicina Tunisia. Sugli scaffali dei supermercati, accanto alle crostatine di marca italiana, biscotti turchi e datteri degli emirati. Nei ristoranti tornano le famiglie con bambini, al primo piano, e gli uomini al piano terra, nel venerdì sera di festa.

l bazar i commercianti chiedono tutti la stessa cosa: elettricità costante e senza blackout e poi la Libia ai libici. “Che escano fuori tutti gli stranieri che vogliono mettere le mani sul Paese”, dicono in molti. Anche gli italiani, chiediamo? “Gli italiani no, ci conoscono bene, erano qui già da prima. E poi durante la guerra sono gli unici che non hanno chiuso l’ambasciata”, ci dice un fruttivendolo. Le donne, quasi tutte velate. Nessuna vuole parlare davanti alla telecamera, neanche quelle che camminano a volto scoperto, truccate, con scarpe e borse alla moda: “Mio marito mi sta guardando”.

Sul lungomare gli adolescenti si riuniscono felici per la prima volta dopo tanti mesi. Sognano di giocare in una squadra di calcio, di fare sport all’aperto, di poter continuare a vedersi in gruppo, in piazza, il venerdì e il sabato sera. Sogni impossibili fino a qualche mese fa. “Italiani? Facciamo una foto tutti insieme”, mi dicono, e improvvisamente siamo star del cinema.

Ad Ain Zara, ex linea del fronte tra le forze pro Serraj e quelle che sostenevano il generale Haftar, almeno dieci tra funzionari del governo di Tripoli, della municipalità locale e poliziotti ci mostrano la distruzione. Quasi fossimo una delegazione di reali britannici. Tutti offrono qualcosa, anche chi non ha più niente: un caffè, acqua, un succo di frutta, un cesto di fragole. Anche i poliziotti, felici di accompagnarci e di farci vedere quali case sono state sminate e quali no. A ogni strada, a ogni incrocio, c’è un caffè da bere che non si può rifiutare e una storia da raccontare di chi ha perso tutto e che con orgoglio vuole ricostruire. Negli uffici, un generoso invito a condividere il pasto dallo stesso piatto, come da tradizione. Con buona pace del coronavirus.

A Ain Zara si muore camminando nel giardino di casa, sulle bombe inesplose. Nelle ultime settimane, ha perso la vita un ragazzino di 14 anni. Al municipio di Ain Zara è una processione continua di sopravvissuti alla guerra: in mano, buste con le foto delle case distrutte, e moduli per chiedere un sussidio.

Sulle mine, nelle settimane scorse, è morto anche un giovane uomo che lascia quattro figli e una moglie in lacrime. Il nonno, a testa alta e col dito alzato in cielo, dice: “Qui non ci serve nulla dagli stranieri. Vogliamo solo mandare a scuola i nostri figli. In sicurezza”. Sulla strada, passa il primo autobus pubblico, la linea 70 sulla linea del fronte. Nella villa accanto, c’è chi sta già piantando il nuovo orto.

Bab Azizia prima era la roccaforte di Gheddafi e dei gheddafiani. Del compound del rais restano solo macerie dentro un’enorme area recintata, dove ora vivono gli sfollati. Dove prima c’erano le caserme, ora è un cumulo di macerie e spazzatura

Nel quartiere si ricostruisce. Cantieri per strade e fognature nuove, scavi per un nuovo giardino per i bambini. “Qui arrivano ong danesi, imprese tedesche, uomini di affari turchi, ci dice un capomastro. E gli italiani, perché non si sono visti?”

Ecco qui il futuro della Libia, costruito con chi ha le mani giovani ma già consumate come quelle dei vecchi.

Mani di migranti, spesso reclutati agli smorzi per le strade di Tripoli. Si siedono tutti in gruppo, sul marciapiede, tantissimi quelli che sembrano non avere neanche 18 anni. Gli attrezzi del mestiere davanti a loro: martelli, scope, pale, come per dire: so spazzare, costruire, scavare. Tirare su i palazzi della nuova Libia.

Per le strade di Tripoli, c’è anche chi sogna la ricostruzione dei vecchi palazzi italiani di epoca coloniale: Ghaleb Ghebrawi, architetto, vorrebbe rivedere la galleria de bono di nuovo aperta, magari con un progetto di riqualificazione con gli architetti italiani. “Ma mancano i soldi e poi ci vuole la volontà politica”.

Quando ci si allontana dal centro di Tripoli, forze dell’ordine controllano traffico e spostamenti. Colonne di forze armate, a ricordare la fragilità della pace tornata da pochi mesi.

 

 

Antonio Di Bella: “Il mio vaccino a New York”

Il corrispondente Rai da New York racconta come funziona il sistema di vaccinazione nella Grande Mela: dalla prenotazione on line all’excelsior pass che consente l’accesso a tutte quelle iniziative pubbliche dove sarà necessario dimostrare di essere vaccinati per poter entrare. Tutto in pochi clic

 di Antonio Di Bella (@AntDiBella)

Ho deciso di cercare di vaccinarmi quando ho ricevuto la notizia che tutti gli ultra sessantenni a New York avrebbero potuto farlo. Così ho cominciato a cercare online e senza troppa fatica sono riuscito a prenotare nella farmacia sotto casa – la Wall Green, parte di una grande catena americana – l’appuntamento per la prima dose il 15 marzo.

Contestualmente all’iniezione, dopo 10 minuti di attesa con sette, otto persone davanti a me, ho ricevuto un secondo documento con le indicazioni per il secondo appuntamento, il 12 aprile.

Pochi giorni prima però il ministro degli esteri italiano Di Maio ha annunciato il suo viaggio a Washington cui non potevo mancare. Così, sia pure a malincuore, ho annullato l’appuntamento per la seconda vaccinazione temendo di finire in coda o di dovere passare interminabili giornate al telefono o al computer.

Invece dopo pochi giorni ho ricevuto una telefonata da un centralino automatizzato che mi ha invitato a programmare di nuovo il mio secondo appuntamento e quando ho commesso un errore nel digitare la mia data di nascita, un’efficientissima centralinista si è palesata chiedendomi addirittura che giorno e che ora preferissi per completare il mio ciclo vaccinale.

Così è stato: il giorno 19 aprile alle 14:30 sempre nella stessa farmacia sotto casa. Questa volta l’attesa è stata ancora minore, cinque minuti con due persone davanti. Inoltre ogni due o tre giorni a chiunque sia vaccinato vengono inviati messaggi per verificare le condizioni di salute.

Ora posso inserire i miei dati nell’excelsior pass, ideato dallo stato di New York in modo che la prova della mia vaccinazione finisca nel database locale e mi consenta presentando semplicemente il mio telefonino di entrare in tutte quelle iniziative pubbliche dove sarà necessario dimostrare di essere vaccinati per poter entrare.

Unica incongruenza il fatto che per accedere al volo per l’Italia o per altre nazioni il mio certificato vaccinale non ha valore e devo in ogni caso presentarmi munito di un test che però è semplicissimo da fare in uno dei tantissimi centri spuntati come funghi in ogni zona della città.