Di Emma Farnè
La corsa alla ricostruzione della Libia inizia già in aeroporto. Al nastro degli arrivi a Tripoli Mitiga, tra tre generazioni di famiglie in viaggio e buste di regali, ci sono uomini di affari che parlano turco o cinese. Consulenti americani. Funzionari di delegazioni europee in visita per incontrare il nuovo governo di accordo nazionale. E chi arriva dall’Italia deve fare tappa a Tunisi o Istanbul: dura di meno il viaggio di un imprenditore turco che arriva dall’altra parte del Mediterraneo di quello di un investitore italiano. Anche perché il nuovo aeroporto, quello internazionale, è ancora in costruzione.
A Tripoli la vita riprende, con fatica. E in fila. Ci si mette in coda per fare la benzina che costa meno dell’acqua: 0,15 dinari, circa due centesimi di euro al litro. Nei distributori spesso non si trova. Tanti la usano per i generatori di corrente, per i frequenti blackout. E alcuni la rivendono sul mercato nero.
E ci si mette in coda alla banca, anche per ore fin dall’alba, per ritirare i soldi dello stipendio, e spenderli in un’economia basata quasi esclusivamente sul contante.
- (Foto Di Andrea Vaccarella)
Chi invece ha fortuna di poter cambiare valuta straniera lo fa spesso, ironia della sorte, davanti all’edificio della banca centrale. E torna a casa con pacchi di banconote in mano, nelle buste della spesa.
- Foto di Andrea Vaccarella
- (Foto di Andrea Vaccarella)
A Tripoli la ricostruzione parla spesso turco. Sono turche le porte e le finestre dei bagni negli uffici comunali, pannelli di plastica. Sono turchi i chioschi di kebab intorno a piazza dei martiri. Al mercato verdura, frutta, persino il pesce congelato, spesso arrivano dalla Turchia e non più dalla vicina Tunisia. Sugli scaffali dei supermercati, accanto alle crostatine di marca italiana, biscotti turchi e datteri degli emirati. Nei ristoranti tornano le famiglie con bambini, al primo piano, e gli uomini al piano terra, nel venerdì sera di festa.
l bazar i commercianti chiedono tutti la stessa cosa: elettricità costante e senza blackout e poi la Libia ai libici. “Che escano fuori tutti gli stranieri che vogliono mettere le mani sul Paese”, dicono in molti. Anche gli italiani, chiediamo? “Gli italiani no, ci conoscono bene, erano qui già da prima. E poi durante la guerra sono gli unici che non hanno chiuso l’ambasciata”, ci dice un fruttivendolo. Le donne, quasi tutte velate. Nessuna vuole parlare davanti alla telecamera, neanche quelle che camminano a volto scoperto, truccate, con scarpe e borse alla moda: “Mio marito mi sta guardando”.
Sul lungomare gli adolescenti si riuniscono felici per la prima volta dopo tanti mesi. Sognano di giocare in una squadra di calcio, di fare sport all’aperto, di poter continuare a vedersi in gruppo, in piazza, il venerdì e il sabato sera. Sogni impossibili fino a qualche mese fa. “Italiani? Facciamo una foto tutti insieme”, mi dicono, e improvvisamente siamo star del cinema.
Ad Ain Zara, ex linea del fronte tra le forze pro Serraj e quelle che sostenevano il generale Haftar, almeno dieci tra funzionari del governo di Tripoli, della municipalità locale e poliziotti ci mostrano la distruzione. Quasi fossimo una delegazione di reali britannici. Tutti offrono qualcosa, anche chi non ha più niente: un caffè, acqua, un succo di frutta, un cesto di fragole. Anche i poliziotti, felici di accompagnarci e di farci vedere quali case sono state sminate e quali no. A ogni strada, a ogni incrocio, c’è un caffè da bere che non si può rifiutare e una storia da raccontare di chi ha perso tutto e che con orgoglio vuole ricostruire. Negli uffici, un generoso invito a condividere il pasto dallo stesso piatto, come da tradizione. Con buona pace del coronavirus.
A Ain Zara si muore camminando nel giardino di casa, sulle bombe inesplose. Nelle ultime settimane, ha perso la vita un ragazzino di 14 anni. Al municipio di Ain Zara è una processione continua di sopravvissuti alla guerra: in mano, buste con le foto delle case distrutte, e moduli per chiedere un sussidio.
Sulle mine, nelle settimane scorse, è morto anche un giovane uomo che lascia quattro figli e una moglie in lacrime. Il nonno, a testa alta e col dito alzato in cielo, dice: “Qui non ci serve nulla dagli stranieri. Vogliamo solo mandare a scuola i nostri figli. In sicurezza”. Sulla strada, passa il primo autobus pubblico, la linea 70 sulla linea del fronte. Nella villa accanto, c’è chi sta già piantando il nuovo orto.
Bab Azizia prima era la roccaforte di Gheddafi e dei gheddafiani. Del compound del rais restano solo macerie dentro un’enorme area recintata, dove ora vivono gli sfollati. Dove prima c’erano le caserme, ora è un cumulo di macerie e spazzatura
Nel quartiere si ricostruisce. Cantieri per strade e fognature nuove, scavi per un nuovo giardino per i bambini. “Qui arrivano ong danesi, imprese tedesche, uomini di affari turchi, ci dice un capomastro. E gli italiani, perché non si sono visti?”
Ecco qui il futuro della Libia, costruito con chi ha le mani giovani ma già consumate come quelle dei vecchi.
Mani di migranti, spesso reclutati agli smorzi per le strade di Tripoli. Si siedono tutti in gruppo, sul marciapiede, tantissimi quelli che sembrano non avere neanche 18 anni. Gli attrezzi del mestiere davanti a loro: martelli, scope, pale, come per dire: so spazzare, costruire, scavare. Tirare su i palazzi della nuova Libia.
Per le strade di Tripoli, c’è anche chi sogna la ricostruzione dei vecchi palazzi italiani di epoca coloniale: Ghaleb Ghebrawi, architetto, vorrebbe rivedere la galleria de bono di nuovo aperta, magari con un progetto di riqualificazione con gli architetti italiani. “Ma mancano i soldi e poi ci vuole la volontà politica”.
Quando ci si allontana dal centro di Tripoli, forze dell’ordine controllano traffico e spostamenti. Colonne di forze armate, a ricordare la fragilità della pace tornata da pochi mesi.